L’Infarto Miocardico Acuto (IMA) è un evento improvviso che si verifica a seguito dell’interruzione del flusso sanguigno diretto al cuore a causa di un restringimento o di una ostruzione (coagulo) di una o più arterie (coronarie) che lo trasportano. Se non si interviene rapidamente per ripristinare il flusso, l’area del cuore coinvolta viene danneggiata dalla mancanza di ossigeno e va incontro a morte per necrosi dei tessuti. In Italia ogni anno si registrano da 130.000 a 150.000 nuovi casi.
La causa principale di IMA è l’aterosclerosi (ATS), processo patologico progressivo dovuto ad accumulo di materiale lipidico (grasso) sulle pareti delle arterie coronarie, che nel tempo porta alla formazione delle cosiddette ‘placche’ (ARTS). Una placca può rompersi all’improvviso con successiva formazione di un coagulo, che può crescere fino ad occludere completamente il vaso arterioso.
L’Infarto Miocardico Acuto può essere annunciato da campanelli d’allarme quali: dolore costrittivo e violento al centro del petto, senso di pesante oppressione oppure dolore bruciante che può irradiarsi alla mascella, alle spalle, alle mani o alla schiena, accompagnato da sudorazione fredda, affanno, debolezza o senso di svenimento. Nelle donne possono manifestarsi anche vertigini/capogiri, dolore addominale, senso di stordimento.
Fattori di rischio
I fattori di rischio possono essere non modificabili, come età (con l’avanzare degli anni il rischio di infarto aumenta), sesso (in età giovanile-adulta l’infarto è più frequente negli uomini, dopo la menopausa, il rischio si equipara tra i due sessi) e familiarità. Fattori di rischio modificabili sono invece stile di vita sedentario e fumo di tabacco, alimentazione ipercalorica e ricca di grassi e carboidrati, sovrappeso e obesità, colesterolo alto (ipercolesterolemia), ipertensione (che comporta un superlavoro del cuore), diabete (che danneggia arterie e rene).
La diagnosi
La diagnosi di Infarto Miocardico Acuto viene effettuata a partire dalla storia familiare e clinica del paziente, seguita da esami di laboratorio e indagini strumentali:
analisi del sangue per valutare i markers specifici di necrosi del miocardio, in particolare lo sviluppo di troponine, CK o CK-MB, che vanno ripetute più volte nel tempo;
elettrocardiogramma (ECG) che segnala i cambiamenti delle onde elettriche del muscolo cardiaco ed eventuali aritmie (battiti anomali del cuore);
radiografia del torace;
ecocardiografia;
angiografia coronarica, che serve ad individuare le ostruzioni presenti nelle arterie coronarie e può essere seguita alla procedura di angioplastica, per ripristinare il flusso di sangue attraverso l’impianto di stenta.
Le terapie
Le cure attuate in reparto intensivo dipendono dal tipo di infarto e dalla sua gravità e sono standardizzate da precise linee guida nazionali e internazionali. L’intervento più importante è il ripristino e il mantenimento del flusso sanguigno nel più breve tempo possibile. Le terapie farmacologiche impiegate sono: trombolitici, acido acetilsalicilico, eparina, antidolorifici, nitroglicerina, beta-bloccanti, ipolipemizzanti, morfina, ACE-inibitori.
Tra le procedure interventistiche, oltre all’angioplastica con stent coronarici, si ricorre nei casi più seri all’intervento di bypass coronarico.
Dopo la dimissione, nel cosiddetto post infarto, il paziente deve adottare una serie di misure per evitare eventuali recidive: terapie ipolipemizzanti da assumere in maniera continuativa come prescritto dal cardiologo curante, controlli periodici, riabilitazione cardiologica, modificazione dello stile di vita, abolizione del fumo, attività fisica regolare e moderata, alimentazione sana.
Oltre a ridurre il rischio di incorrere in un secondo evento ischemico, l’obiettivo di queste misure è migliorare la qualità della vita, favorendo un ritorno alla normalità, alla vita lavorativa e di relazione.
Fonti
Fondazione Umberto Veronesi
Istituto Superiore di Sanità (ISS) Epicentro
Agenas Programma Nazionale Esiti – PNE